Intervista ad Alberto Valentini
Conobbi Alberto il 20 agosto del 2017, durante una di quelle che chiamo passeggiate rabdomantiche, ovvero l’errare cittadino senza alcuna meta se non quella di farsi stupire dal mondo.
Il 20 agosto 2017 Alberto Valentini fu il mio stupore.
Fu un fulmineo riconoscersi: un cenno dal lungotevere, un grande sorriso, un azzardato «sei bello!», un inaspettato «scendi!» e subito un abbraccio.
Ricordo che nelle ore che passammo insieme nel suo atelier una domanda vorticava, anche fastidiosamente, nella mia testa: «come lo racconto?».
Era come se vivessi quell’esperienza sdoppiato: una parte di me era incantata, naufragata in balìa della bellezza che la stava raggiungendo, l’altra, forse la parte che della bellezza vuole essere responsabile, che vuole essere capace di produrla o stimolarla, si ostinava a trovare subito una formulina, un “linguaggio” per tradurre quel posto, quell’incontro, quell’uomo. Per portare ad altri, altrove, il dono che mi era stato fatto dalle coincidenze.
Con Alberto, in quel primo giorno, parlammo di Platone e di Aristotele, del buon vino rosso toscano, della situazione politica e sociale ai tempi di Carlo V d’Asburgo, del fatto che il teatro può salvare l’occidente. Ridemmo tanto, ci volemmo subito bene. «Come lo racconto?»
Si può raccontare la quinta sinfonia di Tchaikovsky diretta dal maestro Valerij Abisalovič Gergiev? L’andai a sentire all’auditorium parco della musica con Alberto e sua moglie Serena in occasione dei loro cinquant’anni di matrimonio. Fu straordinaria. Ma come si racconta?
Si può dire che i violini, prima fermi, d’un tratto sembra sfoderino dalle faretre i loro dardi malinconici da scagliare alle stelle. Si può poeticamente affermare che le mani del direttore d’orchestra, ora lente e dai movimenti ondosi, ora taglienti e veloci come fringille sfuggenti nel cielo della sala, sembrano non solo muovere tutti gli strumenti, dai fiati agli archi, ma anche spostare un misterioso pulviscolo invisibile che permea, e unisce, i cuori di tutti gli astanti. Continuare parlando di questa quarta dimensione fatta di note impalpabili che assorbe il cosmo e le sue baluginanti antinomie, che infonde senso e meraviglia, che ti fa sentire importante lì dove senti di svanire, di non esserci. Forse si può, si può tentare di raccontare un aspetto, di suggestionare ed emozionare, ma chi scrive sa di omettere qualcosa di importante, di fondamentale; di tradire ciò che è essenziale. Chi scrive sa che non potrà mai evocare la musica.
Alberto Valentini era come la grande musica, il grande teatro, come quell’arte che vive nell’effimero dell’incontro con l’altro: è in-mediabile, perché vive dell’immediato.
Alberto era un poeta dell’incontro e sapeva portare presto nei territori dell’amicizia ciò che gli era sconosciuto. In lui convergevano insostenibili contraddizioni e sapeva assurdamente tenerle insieme grazie ad un fattore, bambinesco e numinoso: la gioia di esistere.
Esistere in tutta la propria estensione. In ogni forma.
Questa intervista rappresenta la resa, l’accettazione del fatto che «non si può raccontare». E ciò che non si può raccontare si deve esperire, si deve frequentare: lasciare che Alberto parlasse liberamente attraverso un’intervista diventava così solo un modo per invogliare le persone ad andare a trovarlo.
Oggi non si può più fare, perché Alberto ci ha lasciati il 28 maggio del 2019. Tuttavia Alberto resta nelle amicizie appassionate che ha saputo tessere e nell’entusiasmo spontaneo che sorge in chi ricorda i momenti passati insieme.
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