19 Luglio 1992: Storia di una Stupenda ‘Testa di Minchia’
“Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno che sconfiggere la mafia applicando la legge”.
19 luglio del 1992, molti di noi erano dei bimbi o poco più. Eppure, tra i primi ricordi della mia generazione c’è via D’Amelio, quello angolo di Palermo devastato da 100 kg di tritolo.
Recentemente i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, definendo le indagini che seguirono alla strage “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Si ripete la solita trama, tipica della storia della Repubblica Italiana. Loschi figuri si muovono nell’ombra, in quella sottile linea d’ombra – che forse così sottile non è mai stata – tra potere legittimo e violenza criminale. A dirla con le parole dello stesso Borsellino, se su un territorio insistono due forze che reclamano il monopolio della violenza legittima, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo: beh nel nostro Paese si sono spesso messe d’accordo.
Ma non voglio parlare di questo, toccherà, forse, agli storici riscrivere questa brutta storia per i nostri nipoti. Non mi importa chi c’era dietro alle stragi; non mi importa delle mani sporche di sangue mascherate da sorrisi ingannevoli; non mi importa della trattativa, il patto sanguinario che ha portato alla nascita della seconda repubblica; non mi importa la cronaca nera. Io scrivo di politica e di bellezza ed è proprio su quest’ultima che mi voglio concentrare: la bellezza eroica di quei 57 giorni di 26 anni fa, i 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio.
Falcone e Borsellino nacquero entrambi nell’antico quartiere arabo della Kalsa. Leggenda vuole che, tra i loro compagni di giochi adolescenziali, ci fossero futuri uomini di Cosa Nostra. Entrarono in magistratura e negli anni Ottanta i due vecchi amici iniziarono a lavorare insieme, nel pool antimafia coordinato e creato da Rocco Chinnici.
Erano diametralmente opposti i due ragazzi della Kalsa, umanamente, politicamente e professionalmente.
Giovanni era timido, forse un po’ introverso; Paolo dotato di un’ironia dissacrante, schietto e di carattere aperto.
Erano entrambi dotati di una altissimo senso dello stato e della politica. Giovanni aveva simpatie di sinistra, abbracciando i principi del comunismo sociale di Berlinguer; Paolo – con trascorsi nel FUAN “Fanalino” di Palermo – era un uomo di destra, di quelli seri, di quelli che non producono più.
Giovanni era un pioniere delle indagini bancarie e societarie, un topo d’archivio; Paolo Borsellino era un magistrato di strada, di quelli che i criminali li affrontano a muso duro.
Si completavano a vicenda e li univa un profondo affetto ed un’immensa stima professionale.
I due magistrati si erano visti morire attorno amici e collaboratori. Boris Giuliano, Emanuele Basile, il procuratore Gaetano Costa, il giudice Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa erano pezzi di quel diabolico puzzle che sarebbe stato completato dalla loro uccisione.
Lo sapevano entrambi che sarebbero morti, ma la paura non li ha fermati.
Chissà quante volte in quei 57 giorni un Paolo affranto, impaurito, uomo, avrà pensato alle parole del suo amico Giovanni: “l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”. Paolo non era un kamikaze, era solo stupendamente coraggioso. Il suo senso del dovere non gli permetteva di fermarsi; la sua tempra siciliana non gli permetteva di abbassare la testa; gli avevano ucciso un fratello, lui non si sarebbe fermato.
Chissà quante volte gli saranno passati davanti agli occhi i fotogrammi dell’Asinara, quelli del maxiprocesso, le mille sigarette fumate insieme a Giovanni.
Chissà quante volte avrà pensato ai suoi figli Manfredi, Fiammetta, Lucia, all’amata Agnese, che dopo la sua morte rifiuteranno – con una dignità che, forse, solo i meridionali hanno – i funerali di Stato. Di quello Stato che non aveva saputo proteggere il marito, di quello Stato che, almeno in parte, era complice della sua uccisione.
Chissà quante volte Manfredi, Fiammetta, Lucia, Agnese avranno pensato con gli occhi pieni di lacrime che sarebbe stato meglio avere un padre normale, uno di quelli che pensano non mi riguarda, non sono fatti miei, non cambierà mai nulla. Penso all’immenso dolore di aver perso un padre, un marito, ma sono convinto dell’immenso orgoglio di avere avuto un esempio di abnegazione, rettitudine morale, bellezza. Un esempio per loro e per un Paese intero, che certamente non meritava un uomo di tale fattura. Ma si sa i gesti eroici, come quelli d’amore, non si fanno mai perché qualcuno li merita, si fanno perché è giusto, si fanno perché li si ha nel cuore.
OPERA ISPIRATRICE
Paolo Borsellino – I 57 giorni di Alberto Negrin
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