Comunità o massa?      

Ricordate questa frase?  “Non so cosa dirvi davvero… ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta fino alla disfatta”.

Vi faccio un’altra citazione: “Una gente che libera tutta o fia serva fra l’Alpe ed il mare; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”. Cos’hanno in comune secondo voi l’arringa finale del coach Tony D’Amato ne “In ogni maledetta domenica” e un verso del “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni?

Magari nulla, ma a me sembra che in entrambi i casi chi si esprime parli ad una comunità di persone.

Il concetto di comunità, di questo vi vorrei parlare e vi vorrei anche spiegare perché perdere la consapevolezza di esserlo è, dal mio punto di vista, uno dei guai più gravi con cui abbiamo a che fare oggi nel nostro Paese: più grave dello spread, del debito pubblico (o privato?) o del totoministri di un governo.

 Si, perché il nostro modo di vedere gli altri e, conseguentemente, di porci rispetto a ciò che con essi condividiamo è il punto di partenza per la definizione della qualità di uno Stato inteso come una “res pubblica” ossia una comunità di cittadini liberi.

Cos’è una comunità in senso politico? Lasciamo la definizione accademica a giuristi e sociologi. Sicuramente i suoi fondamenti sono nella presenza di un popolo, un territorio e nell’esercizio della sovranità del popolo sul territorio attraverso un’organizzazione statuale. Ma secondo me di più: c’è comunità dove c’è consapevolezza radicata di essere tutti uniti da un interesse in comune e da un destino comune, che da soli si perde, uniti si vince, che insieme si possono fare cose che individualmente sarebbe impossibile fare. Prova ne è che i benefici economici e sociali di cui godiamo oggi sono il frutto del lento, faticoso e talora violento costruirsi della nostra comunità, non regali piovuti “out of the blue” come forse qualcuno pensa.

Come tali non sono scontati, né possiamo astrattamente rivendicare il diritto di pretenderli se poi non ci carichiamo anche del dovere morale di pagarne il giusto prezzo non solo economico ma spirituale, consistente cioè nel modo consapevole, responsabile, coscienzioso, onesto di erogarli e di fruirne.

 Il punto centrale nella costruzione di un senso della comunità sta, a mio parere, nel processo di composizione fra l’interesse del singolo e quello collettivo: sebbene soddisfare il primo sia un diritto naturale della persona che nessuna entità costituita può negare, anche il secondo è un diritto altrettanto naturale. A tal proposito pensiamo ai principi giusnaturalistici del “alterum non ledere” e “Sui cuique tribuere”.

Che debba esistere e vada individuato un limite alla manifestazione individuale segnato dall’interesse sociale è un concetto banale. Meno banale è il come e il perché. Intanto non basta che questo principio sia stabilito da una costituzione o da alcune leggi: la costituzione si interpreta, le leggi si abrogano, si aggirano, si violano. Per essere davvero comunità noi dobbiamo avere lo spirito della comunità, altrimenti psicologi e forze dell’ordine non basteranno a tenere in piedi il nostro sistema sociale.

Ma soprattutto – e questo è l’aspetto cruciale – dovremmo convincerci che la soddisfazione dell’interesse collettivo coincide con quella dell’interesse egoistico in una prospettiva di lungo periodo.

Viceversa la venerazione esasperata del proprio tornaconto a scapito dell’interesse della comunità, oltre al rischio di sanzioni legali più o meno pesanti, si ritorce contro il suo attore che dovrà vivere in un paese con meno benessere, meno sicurezza, meno servizi.

Ecco, questa consapevolezza mi pare assente nell’Italia di oggi: mentre urliamo contro la corruzione dei nostri politici e siamo sempre alla ricerca di un fantomatico messia che con la bacchetta magica risolva tutti i nostri problemi, sembriamo perdere di vista il fatto che a contribuire alla costruzione della comunità nazionale dobbiamo essere noi cittadini per primi tenendo un contegno non solo meramente legale ma etico nel senso politico del termine. E dobbiamo farlo non perché siamo bravi buoni e santi, ma perché ci conviene, perché questo atteggiamento è un investimento sul nostro benessere futuro e perché, d’altronde, fare il contrario è come indebitarsi col futuro a condizioni indefinite.

Voi prendereste un mutuo con scadenza e tasso sconosciuti?

La comunità, dunque, non è un dono della natura ma è una condizione che si conquista nel tempo e continuamente si deve rinnovare, trasformare se del caso difendere dal rischio di metamorfosi in massa, cioè un accolta di individui disinteressati gli uni degli altri devoti alla religione del proprio ego.

Non diamo un colore politico a questo discorso. Max Weber spiegò, a mio avviso molto bene, che in discussione non dovrebbe essere il capitalismo come sistema ma l’avidità in se che è propria dell’essere umano. E’ questa avidità che l’uomo deve imparare a controllare per il suo stesso bene se vuole vivere in comunità. Comunità, quindi, come equilibrio di interessi razionale, consapevole, consensuale, condiviso e popolare contro l’avidità smodata che tutti dovrebbero percepire come un nemico, comunità come sistema sociale partecipato frutto di un’evoluzione superiore dell’essere umano.

Eppure esistono posizioni non meno ideologiche del marxismo per cui il massimo benessere possibile sarebbe dato da una società in cui l’uomo sia incoraggiato a perseguire obbiettivo dell’immediata, matematica massimizzazione della propria utilità personale. Facciamo attenzione perché tale visione non postula l’esistenza di una comunità, ma di una massa di Homines homini lupi di hobbesiana memoria (non me ne vogliano i lupi che sono animali splendidi). Facciamo ancora più attenzione, perché è dalla visione pessimistica dell’homo homini lupus che emerge poi la necessità di un’autorità leviatanica. Essa, per creare l’ordine che ogni società reclama per sopravvivere, impone d’imperio una legge non sentita né condivisa.

Il genere di paese che avremo dipende in primis dal nostro comportamento come uomini e cittadini.

Siamo pecore o formiche? Questo è il dilemma fondamentale. E la risposta non è scontata. Pensateci su.

Opere citate

• Ogni maledetta domenica (Any given Sunday) regia di Oliver Stone (1999)
• Alessandro Manzoni, Marzo 1821
• Thomas Hobbes, Leviatano (1651)
• Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905)

Emanuele Cesareo

Osservatore, visitatore, curioso.