Vuoi diventare ricco? Impara ad Aspirare

Questa capacità può essere, a mio avviso, molto utile da utilizzare in contesti, come quelli in cui viviamo, caratterizzati da sfiducia e fatalismo (Sud Italia). Scrivo con la speranza che la stessa venga esercitata dal lettore come metodo per affrontare la vita quotidiana. Lo spunto, mi arriva dal contributo di un antropologo indiano che ha proposto il concetto di capacità di aspirare come metodo per aiutare i poveri ad uscire dallo loro condizione. La capacità di aspirare, come vedremo, è una capacità individuale. Essa, però, è allo stesso tempo inscindibile da un’azione politica che deve essere necessariamente collettiva se vuole incidere sulla realtà.

I suoi punti cardine sono costituiti da virtù quali: la pazienza, la posposizione della soddisfazione, il risparmio. In definitiva può essere riassunta come: la capacità di progettarsi. Questa è, a mio parere, la sola chiave per uscire da situazioni di povertà o – per dirla in una forma più adeguata – per raggiungere la via della prosperità a tutte le latitudini.

Il contributo di Arjun Appadurai

Il saggio che mi ispira è stato pubblicato nel 2004 e si intitola “The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition”, a firma del celebre antropologo Arjun Appadurai, nato in India ma formatosi negli Stati Uniti d’America e considerato uno dei massimi esponenti degli Studi post-coloniali. Per inquadrare a grandi linee questo intellettuale possiamo affermare che i suoi lavori sono incentrati prevalentemente sulle ri-configurazioni culturali tipiche della modernità, causate dai processi di globalizzazione e dall’avvento dei nuovi media. Essi sono per certi versi assimilabili alla corrente detta Cultural Studies.

Il saggio che qui ci interessa, si apre con questa domanda: Perché la cultura è importante? Anzi specifica l’autore dopo poche righe: perché è importante per lo sviluppo e per la riduzione della povertà? La risposta potrebbe essere sintetizzata cripticamente (riprendendo il titolo di un importante lavoro collettivo made in USA: Harrison, Huntington 2000) così: Culture matters! Ma partiamo dall’inizio. La proposta dell’autore è complessa. Essa parte dalla necessità di declinare la cultura al futuro.

Questa dimensione, afferma l’autore, potrebbe avere delle implicazioni radicali per la lotta alla povertà e per lo sviluppo, in quanto riappacificherebbe finalmente l’economia come scienza del futuro (l’uomo come agente capace di decisioni, bisogni e desideri) e la cultura, che per troppo tempo è stata legata solamente al passato (usi, costumi, eredità, tradizioni). Questa riconciliazione è possibile soltanto se «collochiamo il futuro, e non il passato, al centro delle nostre riflessioni sulla cultura». Per far questo, Appadurai, propone una riflessione innovativa sulla capacità di aspirare come chiave di volta per interrogarsi sul ruolo del futuro nell’elaborazione culturale. La proposta dell’autore parte dalla convinzione che la cultura debba determinarsi come un dialogo fra aspirazioni e tradizioni. Bisogna riportare il futuro in primo piano, perché considerando le aspirazioni come capacità culturali, ci mettiamo in una posizione migliore per capire in che modo le persone navigano attualmente all’interno dei loro spazi sociali. Le aspirazioni hanno senza dubbio qualcosa a che vedere con i bisogni, le preferenze, le scelte e le previsioni. Poiché tutti questi fattori, vengono generalmente studiati dall’economia e hanno a che fare con l’ambito del mercato e con il piano dell’attore individuale, sono rimasti pressoché invisibili all’interno degli studi culturali. Come laboratorio per sviluppare il suo argomento, l’autore si concentra sui i poveri degli slum di Mumbay che, grazie al supporto di una rete di attivisti, si organizzano e si mobilitano per affrontare i loro gravi problemi abitativi e di igiene, primo fra tutti quello dei gabinetti e del sistema fognario, che non esistono e di cui hanno deciso di dotarsi. Appadurai usa questo caso per dimostrare come le aspirazioni prendano forma e forza dentro i processi in cui i poveri, intesi come gruppo sociale, perseguono la lotta per cambiare la loro condizione, attraverso l’esperienza di un dato obiettivo possibile. Questo consente agli attori di rappresentare sia all’esterno che all’interno del gruppo sociale in cui sono inseriti, la loro esperienza come una possibilità tangibile, divenuta realtà. Questa materializzazione di una via che porta frutti, ha un’enorme potenza di cambiamento, basata sul precedente. Il precedente (in termini di cultura cristiana: l’esempio) ha una forza dirompente essendo la dimostrazione che un atteggiamento mentale trasformato in azione pragmatica rende possibile un cambiamento materiale. Questo atteggiamento in quanto trasformato in esperienza tangibile diventa praticabile quindi ripetibile, copiabile da chiunque.

Che cosa significa aspirare?

Per Appadurai aspirare significa mettere in pratica, quindi, allenare una capacità culturale e simbolica. Si tratta del modo nel quale le persone partecipano alle rappresentazioni sociali che danno forma e significato alla società e al suo futuro. Naturalmente in quanto capacità essa si dispiega, a patto che sia praticata, come nel caso dei poveri di Mumbay, attraverso il cambiamento delle loro condizioni materiali di vita. Con il concetto di “capacità di aspirare” si propone un metodo attraverso il quale i poveri possano diventare degli alleati per combattere la loro povertà (respingendo la necessità di incentivi esterni) partendo dalle capacità e dalle virtù che l’individuo stesso può esercitare con le proprie sole forze. Per esempio, fra le attività che Appadurai descrive – portate avanti da un insieme di organizzazioni non governative composte da attivisti impegnati a modificare le condizioni di vita degli abitanti degli slum – rientra l’insegnare ai poveri a risparmiare: una pratica che assume un significato quasi salvifico perché impone di progettarsi e quindi disporsi nei confronti della vita e del futuro in modo attivo. Risparmiare vuol dire esercitare l’arte della pazienza che attraverso il differimento della gratificazione rende possibile un progetto. La progettazione del futuro è capace di diventare come dice Bergmann (1981) “un moderno equivalente delle pratiche magiche, del ricorso agli oracoli o all’astrologia delle società arcaiche”. Risparmiare, in un contesto come quello di Mumbay dove il 40% della popolazione (6 milioni di persone) vive in baracche o in altre forme degradate di abitazione; dove un percentuale che va dal 5% al 10% è costituita da senza tetto che vivono per strada, è molto di più di una strategia economica. Significa adottare un atteggiamento mentale virtuoso e coraggioso; significa contrapporsi all’emergenza con atteggiamenti di pazienza. Lo si fa concretamente, attraverso la creazione di gruppi informali di piccolo risparmio tra i poveri, al di fuori della sfera di competenza dello Stato e del settore bancario (microcredito, credito rotativo). Questa esperienza di risparmio quotidiano, diventa una sorta di disciplina morale che forma un certo tipo di coraggio morale e di impegno politico per il bene collettivo che finisce col creare persone in grado di gestire la propria vita anche su molti altri piani. Quindi: «poiché lo sviluppo e la lotta alla povertà hanno sempre a che fare con il futuro, è evidente che una maggiore capacità di avere aspirazioni può solo rafforzare i poveri e farne dei partner attivi nella lotta contro la povertà». Questo tipo di impostazione è assolutamente innovativa, infatti “il passaggio dall’uso di nozioni riguardanti i bisogni a un discorso focalizzato sulle aspirazioni è assolutamente interessante per chi si occupa di politiche dello sviluppo” (Jedloswki 2012).

Le premesse della capacità di aspirare

Posto che “la realtà – può e deve essere intesa solamente – come costruzione sociale” (Berger e Luckmann, 1966). Possiamo affermare che la realtà non esiste, di per se stessa, ma esistono solo le rappresentazioni che il singolo si fa della realtà. Ma la visione, che potremmo definire, soggettiva del reale è impregnata inevitabilmente dalla visione che il gruppo sociale di appartenenza ha della realtà, la quale contribuisce incessantemente alla formazione dei pensieri del singolo soggetto. Già Durkheim e Mead ci hanno insegnato che non esiste individuo al di fuori di una struttura, di una cornice e di uno specchio sociale. In particolare Mead parlando dei processi d’identità degli individui, ci ha spiegato come l’identità sia il prodotto di un processo autoriflessivo, nel quale il soggetto si confronta con le definizioni di se stesso che trova presente nei discorsi degli altri, che interiorizza ed elabora. Questo vale naturalmente anche per le aspirazioni. Essere capaci di nutrire aspirazioni significa essere capaci di desiderare, nel presente, degli obbiettivi plausibili in futuri probabili. Si impone prontamente una precisazione fondamentale sulla diversità che si frappone fra lo scegliere e il desiderare. La scelta presuppone una limitazione del reale, infatti, si sceglie fra cose già plasmate. Il desiderio, invece, presuppone una capacità immaginativa di contesti probabili in cui si possa manifestare una possibilità non plasmata o almeno non completamente plasmata. Significa in buona sostanza farsi trovare pronti all’appuntamento con la storia. Lo si fa attraverso la ricerca di una sorta di equilibrio tra immaginazione e volontà, tra presente e futuro in una logica di interiore convinzione che non debba essere il passato a determinare il presente; e che sia molto più fruttuoso pensare che sia proprio il futuro che voglio a determinare il presente che vivo. Riprendendo un saggio di Jedloswki (2012): “le aspirazioni somigliano a dei desideri disciplinati, cioè dei desideri posti in relazione con il principio di realtà. Aspirare a qualcosa vuol dire dare un senso al futuro: ma lo si fa nel presente, e il senso del futuro si riverbera così sul senso dell’ora, che dalla presenza dell’aspirazione è modificato”.

Si potrebbe, a questo punto, affrontare una digressione sull’importanza del passato, in quanto oggetto di rimozione o elaborazione, sui processi che riguardano anche il futuro; infatti un passato non sciolto tende a ripresentarsi immutato. Preferiamo, però, in questa sede non addentrarci in tale problematica. Basti qui tener presente che vi è una sostanziale circolarità fra i modi in cui si guarda al passato e quelli in cui si guarda al futuro. Aspirare, quindi, avrebbe a che fare con il desiderio che, come abbiamo accennato, si basa su una capacità immaginativa. L’immaginazione come potenza creativa, come vis formandi, è immanente sia alle collettività umane che ai singoli esseri umani. Una immaginazione critica, tende a superare il già dato ed a reinventare creativamente il già disponibile. Fatte salve queste premesse, si può affermare che per essere capaci ad aspirare bisogna anche essere capaci di immaginare. Per capire cosa si intenda per immaginare, riprendiamo direttamente l’autore: “the image, the imagined, the imaginary – these are all terms that direct us to something critical and new in global cultural processes: the imagination as a social practice. No longer mere fantasy (opium for the masses whose real work is somewhere else), no longer simple escape (from a world defined principally by more concrete purposes and structures), no longer elite pastime (thus not relevant to the lives of ordinary people), and no longer mere contemplation (irrelevant for new forms of desire and subjectivity), the imagination has become an organized field of social practices, a form of work (in the sense of both labor and culturally organized practice), and a form of negotiation between sites of agency (individuals) and globally defined fields of possibility. This unleashing of the imagination links the play of pastiche (in some settings) to the terror and coercion of states and their competitors. The imagination is now central to all forms of agency, is itself a social fact, and is the key component of the new global order”. (Appadurai 1996) La capacità di aspirare, dunque, nella sua dimensione ottica di costruzione del futuro potrebbe essere definita: come le capacità di trasformare in azione politica l’immaginario sociale di un gruppo che cospira per la realizzazione di una via considerata buona.

La distribuzione ineguale della capacità di aspirare

«La povertà è la disuguaglianza materializzata» afferma l’autore; questi nota come la capacità di nutrire aspirazioni sia socialmente distribuita in modo ineguale; parafrasando Marx, la questione sociale si sposterebbe così dalla proprietà dei mezzi di produzione alla proprietà dei mezzi di immaginazione. La metafora che usa Appadurai per spiegare cosa intenda quando parla dicapacità di nutrire aspirazioni è quella del navigare, navigare nel tempo. Per non perdersi e trovare le rotte migliori c’è bisogno di conoscenza, informazioni, relazioni ed esperienze; chi ne è privo è privato altresì della opportunità di arrivare con successo a una determinata meta. Si capisce bene, come chi appartenga alle più alte gerarchie sociali abbia – almeno potenzialmente – un vantaggio notevole se pensiamo alla capacità di valutazione delle aspirazioni possibili e di valutazione delle vie per realizzarle. Scrive Appadurai: «in ogni società, i più privilegiati hanno semplicemente avuto modo di usare più frequentemente in maniera più realistica la mappa delle norme per esplorare il futuro, e di scambiare tra loro queste conoscenze in misura maggiore di quanto non abbiano potuto fare i più poveri e i più deboli. I membri più poveri della società, proprio a causa della loro scarsa opportunità di esercitarsi in questa capacità di navigare (perché la loro situazione permette meno sperimentazioni e di conseguenza meno riserve di futuri alternativi), hanno un orizzonte di aspirazioni più fragile» (Appadurai 2011). Infatti «non è la condizione di povertà di per sé che è responsabile del fallimento delle aspirazioni. È la povertà unita a una carenza di legami formali ed informali che gioca un ruolo importante nel processo di formazione delle aspirazioni. In soldoni, più una persona è ricca (in termini di potere, dignità e risorse materiali) più è probabile che sia capace di una lucida comprensione della relazione esistente tra beni materiali/opportunità immediate e facoltà/opzioni più generali. Questa lucidità gli deriva dal fatto che ne hanno più esperienza, perché sono nella condizione migliore per procedere per tentativi, riuscendo allo stesso tempo a scambiare fra di loro, con facilità, queste conoscenze. È per questo che “i ricchi diventano sempre più ricchi”. Come sempre è una questione di pratica: i ricchi sono solo più allenati a mettere in pratica questa «capacità culturale complessa [che] fiorisce e sopravvive solo se può essere praticata, utilizzata ripetutamente ed esplorata mediante ipotesi o contestazioni» (Appadurai 2011).

Il ruolo della contestazione/partecipazione

Ragionando sul contesto urbano indiano, Appadurai, pone l’accento su un’altra capacità collegata alla capacità di aspirare: quella di voice; cioè di contestare aspetti considerati negativi dell’organizzazione sociale. Evidenziando, così, come sia significativo il nesso fra povertà ed esclusione. La voice – che è precisamente la capacità di discutere, contestare, indagare e partecipare criticamente – e la capacità di aspirare si rafforzano reciprocamente. Infatti «è proprio tramite la protesta consapevole che può prendere forma e rafforzarsi la capacità di aspirare in quanto capacità culturale e, di converso, è attraverso l’esercizio delle capacità di aspirare e si può accrescere la capacità di esprimere la propria protesta». Ma perché i poveri sono meno capaci esercitare la propria voice? Anche se, «non esiste una cultura della povertà, i poveri hanno senza dubbio un’idea di sé e del mondo che ha dimensioni ed espressioni culturali. […] Si può dire che i poveri si trovano frequentemente in una posizione che li incoraggia ad accettare quelle norme i cui effetti sociali riducono ulteriormente la loro dignità, inaspriscono le diseguaglianze e accrescono le facoltà ad accedere a beni materiali e servizi. Bisogna rafforzare la capacità dei poveri di esprimere la loro protesta, di partecipare ai dibattiti, di contestare e di proporre trasformazioni fondamentali della vita sociale, non solo perché questa è virtualmente la definizione di partecipazione ed inclusione in ogni società democratica, ma anche, e soprattutto, perché si tratta dell’unico modo che hanno i poveri per modificare concretamente a livello locale, quelli che chiamo i termini del riconoscimento tipici di un certo sistema culturale. Essa affinché possa risultare efficace deve essere espressa in termini di azioni e comportamenti che abbiano forza culturale a livello locale quindi che risultino più efficaci all’interno della loro cultura». Per questo, avvisa, non si può definire un’univoca e unica modalità di empowerment.

Aspirare in Occidente

Se trasliamo il concetto di aspirare nella nostra società occidentale – tenendo bene a mente che le aspirazioni non sono mai semplicemente individuali – possiamo considerare, almeno su larga scala, che l’idea di fondo su cui per molto tempo si sono appoggiate le aspirazioni della nostra civiltà moderna è l’idea di progresso. Il concetto di progresso è stato più volte abbinato al concetto di sviluppo. Volendo approfondire il significato di questo fatto dobbiamo ammettere che se l’idea di progresso è stata basata nel passato sulla convinzione arbitraria che il domani doveva inevitabilmente essere migliore dell’oggi – qualcosa che assomiglia ad un assioma scientifico – allora dobbiamo anche segnalare, che quest’idea appare oggi nettamente in crisi. Questo perché, oggi, è in crisi tutto quello a cui si attribuisce una valenza assiomatica. Quello che vorremo rappresentare è che non esistono verità assolute e che tutte le visioni one-way sono inconsistenti per capire la complessità della realtà che cambia da contesto in contesto. Più volte abbiamo rimarcato il bisogno e la valenza del cambiamento come motore per lo sviluppo. Naturalmente anche pensare al cambiamento come un sinonimo di progresso equivale a dargli insieme un giudizio di valore. Il mutamento, è un concetto molto significativo per l’Occidente, possiamo ritenerlo il concetto cardine della modernità. Charles Baudelaire già nel 1861 scriveva che la «modernità è il nome che ha assunto la costellazione economica, politica e sociale del mondo occidentale alla fine del ‘800. È il termine con il quale si esprime l’autocoscienza di un’epoca che riconosce di essere dominata dal mutamento e di essere radicalmente diversa da ogni altra formazione sociale del passato». Insomma, veniamo da un recente passato dove il nuovo era un valore in se stesso, oggi invece si andrebbe verso un conservatorismo critico, verso quello che è stato chiamato: migliorismo. Per dirla nei termini di Taguiffe (2004) “potrebbe aprirsi l’epoca della preservazione intelligente, fondata sulla volontà consensuale di rispettare il passato e gestire la Terra”. In questo senso, l’idea che si evidenzia, dal ragionamento sulla capacità di aspirare, e che ci interessa approfondire, è la convinzione che ogni individuo sia il solo artefice dei suoi successi e dei suoi fallimenti. Dobbiamo per completezza avvertire, però, che questo modo di concepire il mondo, porta con sé il rischio che l’empowerment possa equivalere ad una sorta di responsabilizzazione punitiva, incentrata su un’obbligazione morale a darsi da fare. In questo quadro, l’insuccesso o l’inazione possono di conseguenza essere concepiti come una colpa. Già Beck nel suo “Risk Society” (1992), spiegava come “lo sviluppo ipertrofico della responsabilità individuale spinge le società attuali a caratterizzarsi dalla tendenza di cercare soluzioni biografiche a contraddizioni sistematiche”. Resta il fatto, che la responsabilità deriva inevitabilmente da un’effettiva possibilità di scelta. Se si è fermamente convinti di poter mutare il proprio destino, allora la responsabilità della scelta spetta ad ognuno di noi. Benché prioritariamente collegata a contesti di grave povertà la prospettiva montata da Appadurai ha un raggio di applicazione molto ampio. A mio avviso, infatti, quello che vale in situazioni estreme, vale, a maggior ragione, in condizioni di vantaggio. Le prospettive e gli spunti che nascono dalla discussione sulla capacità di aspirare mi sembrano molto interessati soprattutto se applicate all’interno del nostro contesto e cioè le regioni del Sud Italia. Imparare ad aspirare e poi (in chiave politica) a co- aspirare ci sembra essenziale per il Meridione. Sicuramente la comprensione del sottosviluppo del Meridione non è un’impresa semplice, mi limito solamente a segnalare la capacità di aspirare come un buon esercizio a cui sottoporsi,  soprattutto a Sud.

Tesi Magistrale 2014 Diego Antonio Nesci (1)